giovedì 25 febbraio 2010

Le Cronache di Pizzardi XII - Fuori

Mentre ci guardavamo sorridenti, il cinghiale aprì il suo laptop, attaccò le casse e l'elettronica invase la casa: era la prima volta che sentivamo cosa sentiva lui sempre nelle cuffie, nelle sue lunghe giornate autistiche di Wesnot che si interrompevano solo per mangiare o per bere con noi, o per correre, a volte, solo nel buio folto del sottobosco, tra gli ultimi palazzi che erano il nostro orizzonte dalla cima dell'albero.
Proprio quando la drum'n'bass inziava a rimbalzare nei cunicoli dell'abero, arrivarono tutti insieme, ridendo e carichi di vino, molti degli abitanti dell'albero: alcuni li conobbi quella sera, ad esempio Cornie e il suo amico, lo Slavo. Altri li conobbi in altre notti che seguirono, o li avevo conosciuti già?

Mi accorsi improvvisamente di non ricordare più da quanto ero lì. Mi misi discretamente da parte con un bicchiere di vino in mano dal quale non bevevo. Fino a quel momento avevo perso la cognizione del tempo. Mentre mi rendevo conto di questo e guardavo gli altri muoversi, stringere mani, dare pacche, levare cappotti, mentre i bassi diventavano sempre più alti. Feci per bere un sorso di vino, ma sentii in bocca che scendeva  liquore, perchè il vino l'avevo bevuto senza accorgermi mentre guardavo gli altri: a volte si giravano e i nostri sguardi si incrociavano e io sapevo: io sapevo che sapevano anche loro, che stavamo proprio in quegli istanti tutti iniziando a renderci conto della stessa cosa, ovvero con più precisione, ci eravamo accorti che non ricordavamo più da quanto fosse novembre, anzi avevamo la certezza che novembre fosse durato mesi, che ancora durasse. I corpi si spostavano e mischiavano e sedevano e andavano da una stanza all'altra, tutti avevano un bicchiere in mano e novembre si gonfiava sempre di più. A un certo punto, prendendo brevemente il lobuglio maggiore e il lobuglio minore in disparte, chiesi se non avessero anche loro la sensazione di vivere da dieci anni in un interminabile venerdì sera di novembre senza più né anno né giorno. Mi guardarono entrambi tranquilli, piuttosto andanti, restarono immobili. Il lobuglio maggiore si accese una sigaretta e si beccò qualcosa che gli dava fastidio sotto le ali; il minore, animandosi all'improvviso, enunciò con sicurezza: - Siamo qui da almeno tre anni. Poi guardò il fratello e fece l'espressione di quello che gli scappa da ridere perché stavolta l'abbiamo fatta grossa. Il lobuglio lo guardò, sorrise per un attimo, mi guardò e disse: - Senti non ti preoccupare, sento Aggaz domani, lui di circuiti ci capisce.

Non capivo cosa intendesse, ma in quel momento arrivarono Cornie con Industria, Tigella e Baracca, tre non Pizzardi che spesso, per ragioni che mai ho compreso a fondo, passavano da noi giornate intere pur non capendo assolutamente niente di quello che veniva detto, fatto, pensato o scritto, e che, il più delle volte, tornavano a casa barcollando dopo essere stati nutriti divertiti sedotti consolati inebriati sfottuti trattati a male parole o ignorati totalmente a caso, a seconda del momento, e comunque mai seguendo alcun filo a loro intellegibile. Scesero anche Truppa e Catarsi, due studentesse a cui la fattucchiera dei piani bassi affittava degli spazi nell'albero.

La folla entrò nella stanza e ci trascinò fuori - Dobbiamo scendere dall'albero dodici persone?- chiese con le tipiche vocali aperte il lobuglio maggiore mentre sbandavamo lungo i cunicoli, ma nessuno rispose alla sua domanda: stavamo già scendendo giù e questa notte era in una notte che non finiva mai. Mi passarono una bottiglia di whisky senza tappo proprio prima di scendere in strada. Quando tutti furono usciti, mi guardai intorno: su di giri e bevuti, aspettavamo Cratere e Paletta, le due studentesse, e in cima all'albero si sentiva ancora, indistintamente, un remix di Molinaro. Guardai il cinghiale, e questi sorrise soddisfatto: era molto contento di aver lasciato le casse al massimo mentre, a mezzanotte, usciva per stare via tutta la notte. Gli piaceva il rumore dei vetri che tremavano. Domani, commentai con il loguglio minore, si sarebbe svegliato di pessimo umore.

Quella sera il lobuglio minore sorseggiò da solo tutta una bottiglia di sambuca, mentre svolazzava a destra e a sinsitra della posse che avanzava costeggiando il fiume viali: il cinghiale sul suo microbiciclo tipico, da solo, in avanscoperta e controsenso senza fari telefonando, io con il whisky che bofonchiavo di novembre da solo come un folle, il lobuglio maggiore che correva senza sosta appresso al procione, la sua compagna, che cercava di rubare tutto: cartelloni, campanelli delle bici, tergicristallo dell'ambulanza, sedie, vasi, persino un tombino, se il peso non l'avesse fatta desistere e finalmente il lobuglio non l'avesse riacchiappata, tra le vive proteste del vivace animale. Cornie passeggiava passo a passo con lo Slavo, che commentava con poche, dure e sintetiche parole la realtà che lo circondava:

-IN MIO PAESE NOVEMBRE È NOME DI DONNA-

mi disse quella sera, o un'altra sera: non aveva più molto senso... tempo... non aveva miù tolto penso, mi sentii sussurrare nell'orecchio, e sobbalzando vidi il lobuglio minore, il suo sguardo vivace, proprio a tre centimetri dalla mia faccia: riusciva ad apparire e sparire in modo straordinario e amava gli anagrammi nonsense, i limerick, e sopra ogni cosa, i calembour.

Iniziammo a sentire il rumore della vita della notte, luci, musica, risate femminili: non eravamo ancora entrati da nessuna parte ma eravamo già completamente ubriachi, certi che novembre forse non sarebbe finito mai e  ricordavo che dovevamo chiamare qualcuno... 

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