venerdì 5 febbraio 2010

Le Cronache di Pizzardi X - Novembre

È stato durante il mio soggiorno a Cortefighetta che ho ripreso i miei studi sui Pizzardi. Riinziai subito a stendere il mio diario:

Vivevo da qualche mese nei cunicoli dei Pizzardi, era arrivato novembre. La scomaprsa del caldo e della luce faceva stringere un po' il cuore. In quel periodo, nella dimora dei Pizzardi ognuno se ne stava sulle sue per la maggior parte della giornata.
Dalla tana del cinghiale, la drum n bass era stata sostituita dal suono della chitarra che arpeggiava i radiohead. Il canide dentro me fiutava qualcosa che lo agitava, come prima di un terremoto. Il lobuglio maggiore scendeva dal suo soppalco solo nel primo pomeriggio, nudo, arruffato, avvolto in una coperta lunga e pelosa con un motivo scozzese di rossi e di neri. Arrivava in camera, mentre il cinghiale, già sveglio dalle sei, preparava playlist di Sigur Ros e Amon Tobin; mi guardava, canide dormiente che bofonchiava cose nel dormiveglia; poi prendeva un qualsiasi oggetto oblungo e iniziava a sbatacchiarmelo gentilmente addosso, senza dire una parola e con un picchiettio costante e delicato. Era il suo modo di svegliarmi: in quel periodo il lobuglio maggiore non riusciva a sollevare una piuma. La mattina dovevo alzarmi per fargli il caffè: gli altri dormivano, e il cinghiale, per una sfortunata congiuntura, era incazzato nero dalla mattina alla sera e, dopo le dieci del mattino, si rifiutava di fare qualsiasi cosa tranne giocare a Wesnot e guardare Heroes.

Dopo aver fatto il caffé al lobuglio maggiore, lo facevo vestire - io dormivo oramai vestito- e uscivamo a prendere le sigarette. Il povero pennuto girava la testa guardandosi in giro come se non riconoscesse la strada sotto casa sua. Ci mettevamo seduti fuori dalla tenda del mercante di tabacco e bevevamo ancora caffè, a volte rafforzandolo con liquori alle erbe per contrastare il grigio delle giornate e il torpore in noi. Arrivavamo al primo pomeriggio già alticci e più o meno a stomaco vuoto. Ci confidavamo: il pennuto mi raccontava del procione, io della mia lontra: due coppie di creature che, in malo modo, stavano andando in frantumi.
Il cinghiale non usciva più, e ci chiedevamo cosa avesse. Le folte setole sul suo viso e le zanne rendevano difficile leggere nei suoi occhi. Usciva solo per comprare pane e acqua: si alzava la mattina presto grugnendo, andava in bagno barcollando e sbattendo, entrava in cucina e dava uno sguardo sconsolato attorno a sé. Il tavolo era infestato da pellicole di sottiletta, bucce di cipolla, scottex usati, bicchieri di plastica mezzi pieni di birra, di vino, di succo d'arancia, nell'unico angolo del tavolo dove la superficie marrone era ancora visibile c'erano incrostature si sugo e il mucchietto di pietrasballa del mattimatti - che ancora non viveva dai Pizzardi ma che da sempre portava in dono questa e altre delizie.
Le mattonelle erano appicicaticce e nere, sui muri c'erano chiazze dove la notte prima erano state tirate, facendole esplodere, delle mozzarelle confezionate.
Sotto la base del tavolo c'erano cocci di piatti sbattuti a terra - il tipico modo dei lobuglio di evitare di piangere in pubblico- di sigarette spente - io, canide, giravo di notte insonne oramai sciccando a terra e dimenticando sigarette ovunque, che bruciavano e cadevano a terra. Le formiche avevano oramai per prassi axcquisito un tratto del muro dove potevano trafficare indisturbate. Il cinghiale apriva il frigo, dal quale uscivano odori inusitati e nel quale si poteva trovare anche uno shampoo o delle tenaglie, prendeva il latte a lunga conservazione, lo posava sul fornello. Si faceva largo tra le buste della spesa e le teglie unte al centro delt avolo cercando la caffettiera. Questa tendeva a nascondersi, a volte separandosi in più pezzi.
Una volta acchiappata, la caricava e la metteva sul fuoco. Quando iniziava a bollire, il cinghiale ignorava le vive proteste della caffettiera per essere stata svegliata così presto: la prendeva, metteva il culo sotto l'acqua fredda, e la rimetteva sul fuoco. In una ventina di minuti, dopo aver ripetuto l'operazione a volte anche cinque volte, il caffè era pronto. Fuori, il cielo aveva il colore della platica biancastra e opaca di un neon stanco. C'erano tazze incrostate al tavolo da staccare e da grattare con l'acqua calda. E c'era, in mezzo alla stanza, un operaio moldavo che stava tinteggiando il soffitto.
Bevuto il caffelatte, il cinghiale tirava su il cappuccio della felpa blu alla quale era tanto affezionato, e che in realtà apparteneva alla lontra, poi la giacca, un grugnito appena percepibile, il tintinnio delle chiavi, gli occhiali da sole anche se sole non c'era, la porta di casa aperta uno spiraglio appena e riaccompagnata fino a fare appena un clic.

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